Intervista di Sara Durantini a Giovanni Leto
Intervista a Giovanni Leto: dalla narrazione collettiva alla pittura materica
Un “oggetto trovato” degli scarichi, macerie della civiltà, che prendono una forma indistinta, sembrano ritornare quasi alla preistoria, assumere la faccia delle terre di nessuno, della assenza dell’uomo stampata negli orizzonti con tante schegge di sua passata e consumata presenza.
Marcello Venturoli (a cura di), Giovanni Leto / Le terre di nessuno,
ed. Associazione Culturale Hobelix, Messina, 1985
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Orizzonte alfa, 1985
Orizzonte bianco, 1985
Senza titolo, 1985
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Dalle esplorazione della pittura evocativa a una più acuta e matura ricerca del significato dell’oggetto inteso come elemento “in superficie”. La scoperta dell’oggetto che oltrepassa i confini della tela per essere reinventato, nuovamente contestualizzato e modificato è il fil rouge dell’arte di Giovanni Leto, un punto di partenza nella sua indagine quotidiana. La ricerca si nutre di immaginazione, la quale interseca la storia personale con una narrazione collettiva, in un gioco (e in un intreccio) di materiali e colori, creando trascendenze pittoriche e suggestioni filologiche che richiamano i Sacchi di Burri e i décollages di Rotella. In questa intervista ripercorriamo, con l’aiuto dell’artista Giovanni Leto, la sua carriera, dalla pittura evocativa a quella “materica”, dal contesto pittorico, au delà de la peinture, nel quale ha sperimentato le prime esperienze alle più recenti esposizioni e alla sua ricerca, in continuo divenire.Secondo l’opinione di molti critici (Di Genova e Venturoli, per citarne alcuni…) le tue opere possono essere inserite in un percorso artistico simile a quello di Burri e Rotella per l’utilizzo “dell’oggetto”: la tela diventa trasposizione del sé, riflessione, ricerca e meditazione sia personale sia collettiva. Che cosa puoi aggiungere in merito a questa descrizione?G.L: Penso anch’io di appartenere a quella linea di ricerca e questo nonostante l’idea di uno sviluppo lineare e progressivo della storia, può oggi sembrare tramontata. Burri e Rotella, senza dimenticare Fontana, sono punti di riferimento importanti da cui è ancora possibile ripartire per nuovi traguardi.Ti senti partecipe di un discorso artistico iniziato nel corso del ‘900 con l’inserimento di elementi materici nei quadri e a quale artista ti senti più affine? G.L: Certamente l’irruzione di elementi materici nella superficie della tela, ha origine nelle Avanguardie storiche e caratterizza ancora oggi molta arte. Tale pratica, per molti artisti, nasce dal desiderio di aggiungere brandelli di “realtà” ad un’arte che si è sempre data come finzione, quindi dal bisogno di sanare in qualche modo la distanza tra arte e realtà. Per quanto mi riguarda, l’utilizzo nel mio lavoro di fogli di giornale attorcigliati tattilmente e stratificati sulla superficie pittorica, non tende a risolversi in un puro e semplice trasloco dell’oggetto dalla realtà alla tela. Si tratta invece di una pratica in cui è primario il bisogno di intervenire a modificare, reinventare, dare nuovo senso all’esistente, alla realtà oggettiva mediante un rapporto attivo, non contemplativo con l’oggetto assunto. Quale rilevanza puoi dare all’elemento autobiografico nel tuo lavoro? G.L: Nell’arte l’elemento autobiografico non manca quasi mai, è sicuramente un aspetto importante: permette di raccontare la propria vita anche quando non ne hai intenzione. Tempo fa, in un articolo sul tuo lavoro, parlavo di “fenomenologia dell’essere umano”. Da dove è partita la tua ricerca del sé e di un “io” collettivo (oltre che personale) e dove credi che approderà? E soprattutto si potrà mai mettere un punto a questa ricerca? G.L: Per quanto mi riguarda, superata precocemente la fase in cui nei primissimi anni di studio mi limitavo a riprodurre la realtà così come era nella sua apparenza, ho iniziato quasi istintivamente a problematizzare il vissuto, a cercare nelle cose l’essenza, a voler andare oltre ciò che nelle cose era ovvio. Per la verità, un grande aiuto in questo fare riflessivo, mi è venuto anche dalla mia insegnante di Disegno dal vero, negli anni di studio all’Istituto d’Arte. Ero applicato a ritrarre un calco in gesso di epoca romana quando lei, vedendo come stavo procedendo, si avvicinò e mi disse: “Prima di impegnarti nei particolari devi trovare la forma complessiva, la struttura entro cui racchiudere ogni singolo elemento. Solo dopo avere abbozzato a grandi linee il tutto puoi cominciare a preoccuparti dei particolari”. A quel punto, per farmi capire meglio, prese la matita e la vidi intervenire in quel disegno con tanta decisione ed energia finché, con pochi tratti, tradusse in forme i suoi suggerimenti. Il mio timido e pulito disegno ne uscì distrutto, ma da quel momento avevo compreso molto non solo sulla necessità di dare priorità alla struttura, ma venni attratto anche dall’energia che aveva messo nel tracciare le sue linee. Questo mi portò ad abbandonare il mio segno ancora incerto e di trovare più tardi la chiave con cui trasferire il sé nel tracciare le linee sulle cose osservate, mirando con maggiore consapevolezza a ricavarne l’essenza. Quali sono le analogie di un presente “liquido” che stiamo vivendo (tra notifiche, social media, fake news) e il periodo in cui hai dato avvio alla tua ricerca, il Novecento di Burri e Rotella? G.L: Nel presente “liquido”, mi sembra non sia cambiato nulla di veramente sostanzioso rispetto a prima. Trovo soltanto una salutare moltiplicazione di strade da percorrere e di modi di fare ricerca che si pongono però, inevitabilmente, anche se non si vuol vedere, in continuità con le ricerche avviate nel passato a cominciare da quella di Picasso che con molto anticipo, nelle sue ricerche (tra cubismo, antropologia e primitivismo), affermava “Io non cerco, trovo” come a voler demolire un modo preordinato di cercare. Oggi si abbattono muri, linee di confine; c’è una mescolanza di situazioni diverse, la possibilità di viaggiare senza preconcetti, di esplorare il mondo, la vita in tutte le sue forme e colori, ma il fine, a ben guardare, è ancora lo sviluppo progressivo delle conoscenze. Il problema nasce quando nella società si pensa di poter navigare senza un salvagente, un fare critico, una adeguata attrezzatura che eviti di naufragare. Nel presente liquido, viaggiare attrezzati è più che mai necessario: serve a mettere un qualche argine al rischio di una deriva, ad avere dei punti di approdo solidi in cui poter riflettere, approfondire e valutare via via le esperienze, la moltitudine di informazioni che passano indiscriminatamente attraverso i social media. |
Giovanni Leto nasce a Monreale (Palermo) nel 1946. Il suo percorso artistico inizia all’Istituto Statale d’Arte di Palermo. Nel 1964 consegue il diploma di Maestro d’Arte, lascia la Sicilia per frequentare l’Accademia di Brera. Nonostante la breve permanenza, Leto ha modo di frequentare il corso di pittura tenuto da Domenico Cantatore e le lezioni di storia dell’arte condotte da Guido Ballo. Tornato in Sicilia, Leto prosegue i suoi studi all’Accademia di Belle Arti. Risalgono a questi anni le prime esposizioni.
Leto riprende la sua carriera negli anni ’80, in seguito a una breve stasi. Con la partecipazione a Expo-Arte di Bari, l’artista viene notato dalla critica: Giorgio Di Genova, Enrico Crispolti, Filiberto Menna, Pier Restany, Francesco Vincitorio riconoscono i suoi lavori. Sempre di questo periodo l’importante segnalazione da parte del critico Marcello Venturoli che, dopo aver scritto di Leto in Flash Art come uno dei “dodici artisti più interessanti della Decima Expo Art”, cura una sua personale a Messina, alla galleria Hobelix. E’ da questo momento che Leto inizia ad esporre in tutto il Paese, entrare in contatto con critici d’arte, ricevere riconoscimenti.
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