MEMORIE DEL PRESENTE – STRALCI DA UN DIALOGO
(Leto in un’intervista di Anna D’Elia)
Anna D’Elia: Questa mostra segna un punto importante nel tuo lavoro e nella tua vita. Quest’anno compi 56 anni e guardandoti indietro puoi contare cinque stagioni della tua arte o sono sei? Mi aiuterai tu a ricostruirle, per scrivere di te ho bisogno di entrare un po’ di più nella tua anima.
Giovanni Leto: Entrare nella mia anima?!…cosa vuoi che ti dica. Non so se questo luogo, per giunta al singolare, cui solitamente si cerca di ricondurre tutto, esista. A volte mi sento talmente arido da pensare che, se esiste, non può che coincidere con il deserto, con il vuoto, con una sorta di materia grigia, informe.
Tu, forse, intendi conoscere i fatti che hanno contribuito a determinare i miei lavori.
Posso raccontare della mia fanciullezza, delle mie passioni, dei miei sbalzi d’umore, della pluralità di situazioni, anche contrastanti, che mi hanno abitato e mi abitano, dei miei vuoti, della mia storia fluttuante, ma, non è detto che questo possa bastare a far luce. Anzi, può darsi che le cose si complichino ulteriormente, perché, nel raccontare non si può che procedere per tracce ed una storia ricostruita per tracce, si sa, è sempre storia incompleta.
La mia “anima”, all’età di dieci anni circa, è segnata da una foto voluta da mia madre che mi ritrae in calzoni corti e bretelle a bordo di una Vespa, che non mi appartiene, e fingere di guidarla.
È una foto che nell’immaginario di mia madre doveva servire a nascondere la realtà di stenti che la famiglia viveva ed è proprio nel posare per questa che passo da un’età candida e spensierata ad una condizione in cui, anch’io come mia madre, avverto un senso di vergogna della povertà, e in più, un senso di pudore, quasi di colpa, per la passione che ho per la pittura, una passione sempre più costosa.
Sono sentimenti iniziali che mi fanno sentire gli ori musivi tardo-bizantini dell’imponente duomo di Monreale, a ridosso del quale sono nato (nel quartiere Ciambra), come eccessiva, impietosa, ostentazione di sfarzo, posto lì a sottolineare, per contrasto, la miseria circostante.
Accanto a questo sentire, fondamentale è, nella mia infanzia, l’”anima” che ho ricevuto da mio padre: uno “compagno” che poneva innanzi tutto il Partito, ovvero “il bene comune” anche quando questo era, sempre più spesso, a scapito del bene della famiglia.
Nei momenti in cui mia madre si lamentava per la vita di stenti che era costretta a vivere a causa delle sue idee, lui coglieva l’occasione per insegnarmi che, “per difendere i valori in cui uno crede, diventa necessario, qualche volta, fare delle rinunce.
A casa, se qualcosa da leggere circolava, era grazie a lui: il Che fare? di Lenin, libri di storia, la Divina commedia di Dante Alighieri, nonché il giornale l’Unità che portava sempre con sé nella tasca della giacca, come a fargli da distintivo. A proposito dell’Unità, ricordo che nel ‘58, o forse nel ’59, insomma quando venne all’inaugurazione di una collettiva d’arte sacra, dov’ero presente con un mio piccolo dipinto (un cristo dai modi sciolti e succulenti, di cui ho smarrito ogni traccia), di fronte al prete che storceva il muso alla vista di quel giornale, mio padre, riuscì a stento a trattenere la voglia di battagliare, com’era suo solito, per non rischiare di mandare in fumo quella che era la mia prima partecipazione ad un’esposizione.
Ma la storia dell’Unità a casa mia è lunga: una volta letto, era ripiegato in quattro ed usato a mò di paletta per ammazzare mosche e fastidiose zanzare; mia madre poi, il cui odio crescente per quel giornale era infinito, quando non lo gettava direttamente nell’immondizia, ne riduceva, spesso rabbiosamente, i fogli in torce (quasi come oggi faccio io) per accendere i fornelli. Per me che con quel giornale ero stato allevato, diveniva invece, dagli Anni Sessanta, lo strumento che, con i suoi contenuti, mi permetteva di tramutare il mio senso di vergogna della povertà in passione per le lotte civili, e poi, dall’ottantacinque, materiale quasi esclusivo con cui realizzare le mie opere.
Circa dal ‘63, dopo le prime prove figurative di cui conservo due piccoli paesaggi della campagna monrealese, i miei modi scolastici di far pittura, subiscono il fascino delle opere informali di Dubuffet e di Burri che trovo illustrate in fascicoli d’arte che, sempre più puntualmente, acquisto in edicola. Ora, la tela di sacco, le lenzuola smesse, le terre e gli smalti di cui mi fornisco dal ferramenta, i pennelli grezzi, dal pelo duro, che sembrano scope, sono i materiali e gli strumenti con cui mi cimento, e ciò sia perché le finanze non mi permettono altro, sia perché sono quelli che sento più vicini al mio vissuto.
Per la mia pittura, questo è un periodo felice che porterò avanti per un bel po’ di anni, finché, nel ‘68 (data del mio diploma all’Accademia di Belle Arti e di manifestazioni studentesche), mi convinco, preso stupidamente dagli slogan del momento, che “l’arte è inutile” (dico stupidamente, ma si sa che ogni cosa va inquadrata nel contesto in cui avviene). Quindi, per qualche tempo, a dispetto del mio originario sentire, mi abbandono sfacciatamente nella produzione di opere della specie più dozzinale da vendere a buon mercato: paesaggi, nature morte, madonne e santi, insomma soggetti figurativi di ogni genere che mi permettono, se non altro, di pesare meno sulle finanze di casa e addirittura di regalare a mia madre la prima lavabiancheria della sua vita.
Poi, all’incirca nel ‘74, quando ormai la “contestazione studentesca” esaurisce la sua spinta ideale e tutto rifluisce nel privato, l’innata passione per l’arte torna a farsi sentire, caratterizzata, questa volta da modi, diciamo così, più concreti che vedono il piano dell’opera accogliere materiali d’ogni genere: legno, carta, stoffe, etc., frammisti a colori e paste varie.
Ad ispirarmi in questa nuova direzione, oltre alla robustezza un po’ “monacale” e “stracciona” di Masaccio, incontrata nei miei primi anni di studio ed oltre ai sacchi lacerati di Burri, anche questi, a loro modo, da saio francescano, è, soprattutto, Kurt Schwitters con i suoi assemblaggi. Ora sento maggiormente l’arte come “pratica di materiali” e, insieme, come strumento che consente ai miei umori di intervenire a modificare e possedere la realtà. Cosi, se a Luis Borges in una sua poesia intitolata Il deserto basta rimuovere un pugno di sabbia per ottenere la sensazione di avere cambiato il volto del mondo, per me si tratta, nell’utilizzo dei materiali di aggiungere a quell’azione, diciamo cosi “minimalista”, i miei umori tattili, quegli umori con cui, non solo modificare la realtà, ma anche possederla. A testimoniare questa nuova partenza sono, inizialmente, la serie di opere de “l’eros del tatto” dell’84, poi le Cornici dipinte e fasciate e Corda dell’85 e più spiccatamente la nutrita serie degli Orizzonti affidati agli spessori tattili della carta.
A.D’E.: Riprendo l’immagine dei fogli accartocciati dell’Unità e delle molteplici funzioni cui venivano piegati; mi piacerebbe riandare indietro con queste storie e riannodarle al tuo gesto presente (ma già passato) di attorcigliare fogli e rimetterli in ordine l’uno accanto all’altro come alfabeti di un nuovo linguaggio fatto di gesti. I tuoi gesti: questi mi piacerebbe guardare, anche solo attraverso le parole.
G.L.: I gesti, certo!… Il bello, però, è nel farli più che nel raccontarli. Ad ogni modo nelle opere che vanno dall’85 ad oggi, in cui protagonisti sono soprattutto i fogli di giornale, selezionati per tipi di carattere tipografico che vi sono impressi, per tipo d’immagini, di colore e di grana, sono proprio i miei umori tattili oltre che visivi a guidarmi. Inizio attorcigliando uno per volta i fogli di giornale, riducendo in pieghe le notizie e i caratteri di scrittura che questi contengono, sino a caricarli di altri significati. Poi li dispongo sulla superficie dell’opera, stretti tra loro per lo più orizzontalmente, a formare quasi una muraglia e/o, assecondando le forme che pian piano scaturiscono dai loro accostamenti. La manualità connessa a queste operazioni mi conduce oltre lo “specchio di Narciso”, a sentire anche fisicamente la materia. La fase successiva consiste nel lacerare, strappare, rendere penzolanti qui e là, quei cordoni di carta ravvolti che, nel loro insieme, mi appaiono ancora rigidi o poco manipolati e sofferti. È un lavoro che coinvolge quasi tutti i sensi, a tratti lucido, misurato, “da vero architetto di discariche”, a tratti istintivo.
In alcuni momenti mi ritrovo ad avere in mano più cordoni di carta, pronti come frecce di Cupido ad essere incollati simultaneamente sulla superficie, o come astrali della mitologia, diretti a squarciare il cielo. Più cresce l’opera e più i gesti diventano rapidi, convulsi, indirizzati a ricavare sentieri che s’inerpicano, scrimoli, orli penzolanti. Non si tratta di un procedere per accumulo (l’accumulo sa di operazione disordinata e distratta), semmai d’accostamenti suggeriti, dalla “logica del cuore”.
Appena l’ultimo cartoccio e gli altri materiali trovano posto e la materia nel suo insieme si presenta corposa, eppure silenziosa, svuotata quasi dei suoi significati iniziali, immersa in una luce “atea”, come alla fonte d’ogni possibile citazione, è il segnale che l’opera è conclusa.
A distanza di tempo, mi succede di tornare a rivedere alcune parti delle opere che realizzo, ma è solo per soddisfare un eccesso di senso estetico che ogni tanto mi prende.
A.D’E. Le tue opere mi hanno sempre parlato del mondo, del tempo e di te in rapporto a tutto questo: quando, ad esempio, negli “Orizzonti” stratifichi i rotoli di carta, è come se tu stessi ponendo uno sopra l’altro i tuoi ricordi, gli strati della tua pelle che diventano, stratificazioni geologiche e tu parte di quell’infinito-indefinito che è la storia, racchiusa in una pietra, ad esempio, o in un albero.
G.L.: I miei intrecci di carta sono gli involucri, le pieghe della mia esistenza, le sue ombre e contemporaneamente le sue luci; assenze e presenze; vuoti e pieni, percorsi labirintici e, nello stesso tempo, inflorescenze che colorano, di nuovo, il mio mondo.
A.D’E.: Ed io che ci sto davanti sono presa dal desiderio di sciogliere gli intrichi delle carte, di percorrerne lo spazio, di entrare nei labirinti e lo faccio, ma mi perdo, perché lungo il percorso si aprono crepacci. Mi riferisco agli “Orizzonti”, ai “sentieri Orfani, alle “Gole”, alle “Glaciazioni”.
G.L.: Certo, non è come andare a fare shopping, o come camminare su di una moquette. L’arte è sì gioco, ma il volere entrarci comporta anche qualche rischio, richiede un certo coraggio anche a chi vuol fruirla, amarla, capirla.
A.D’E. Da queste opere mi sento attratta e respinta, come se il tuo gesto di accartocciare e stipare mi escludesse: lì è racchiuso ciò che deve restare celato. Poi, le strette diventano meno serrate, negli intrecci si aprono varchi, tra le pieghe affiorano parole come messaggi, i rotoli si animano: gli “orizzonti” diventano “onde”, la terra cede al mare e la stasi al moto. Non più carte arrotolate, ma frammenti organici, resti di un mondo che sopravvive, pezzi di tempo che cercano un altro spazio per ricomporsi. E lo trovano, forse, negli occhi di chi guarda.
G.L.: Quello che dici è molto bello ma, a proposito di sciogliere gli intrichi della carta, del tuo interesse per ciò che i miei involucri racchiudono, non rimane che trovare il coraggio di rimuoverli, di srotolarli. Tanto più che, prima di procedere all’accartocciamento, qualche volta, su alcuni di questi fogli scrivo dei messaggi. Sinora, nessuno si è spinto a cercarli, per paura, forse, di privarsi dell’opera, di sfregiare la sua apparenza.
D’altra parte, non deve essere facile, anche le apparenze hanno la loro importanza…o no?
A.D’E.: Queste tue installazioni recenti mi aiutano a vedere diversamente suggerendomi percorsi dello sguardo sempre variati; ad ogni angolazione e ad ogni punto di vista cambia la mia visione, e ciò che ne ricavo, si compone e scompone di continuo davanti agli occhi l’opera.
È questo che cerchi nel tuo destinatario? Un occhio che restituisca un “ordine” a ciò che sembrava averlo perso?
G.L.: Pensando quanto sono disordinato, non ti nascondo che mi farebbe comodo. Ma, relativamente all’arte, quando è autentica espressione dell’uomo, della sua libertà, non credi sia già ordinata di per se? Diversamente chi può dire qual é l’ordine giusto? La storia che è fatta di continuità ma anche di differenze, ci insegna che non esiste l’ordine, o se vuoi, la perfezione, la bellezza al singolare, ma solo al plurale; se invece tu intendi una trasposizione nel “sociale” all’ora sì: l’arte ha anche una funzione sociale; ma su questo versante, quando ha provato a mettere “ordine”, è scaduta puntualmente nella retorica, in discorsi moralistici e/o ideologici.
A.D’E.: Fin dagli Anni Ottanta non rappresenti più lo spazio, ma cominci a catturarlo e poi a coinvolgerlo. Oggi lo spazio è il punto da cui parti, per spingerti oltre, non è più uno ma tanti e tracci percorsi per legarli insieme e metterli in relazione.
In quest’ultima mostra, il rapporto tra l’opera e lo spazio non è solo di accoglienza e complicità, ma in qualche misura, anche antagonistico.
G.L.: È vero! mentre le opere del “corpo a corpo con la pittura reificata” del 92 perdevano quell’aspetto di quadro che era ancora presente negli Orizzonti per divenire veri e propri oggetti tridimensionali in grado di vivere lontano dalle pareti, in uno spazio che non veniva, però, ancora denotato e quelle immediatamente successive quali “Terreus”, “Joni e Lingam”, “acquitrino” tutte del 94, realizzate per il Palazzo Pottino a Petraia Soprana, ed anche “Monolito” del 99, negli spazi di Museum a Bagheria, evolvevano in una direzione che, al contrario, includeva, in modo indissolubile, lo spazio circostante come elemento proprio dell’opera, quelle attuali, in cantiere per questa mostra, vogliono vivere, sì in uno spazio dotato di identità, ma essere anche capaci, all’occorrenza, di rimettere in discussione ogni vincolo con il luogo che le ospita; di cambiare casa come e quando vogliono; di esercitare una propria autonomia, pur senza rinunciare preventivamente ad un discorso che tenga conto di adiacenze, corrispondenze, momenti di confronto con il contesto che le ospita. Non installazioni quindi, ma opere che, in altri termini, non intendono precludersi una funzione battagliera o “partigiana”, la capacità di andare oltre un’ipocrita idea di tolleranza tra le parti.
A.D’E.: Le tue opere mi aiutano a pensare diversamente liberandomi da ogni vecchio modello di pensiero fondato su dicotomie e rigide separazioni.
G.L.: È la complessità dell’essere che non permette di ragionare per opposizioni. Nell’indagare l’esistenza, le scienze umane, se viste come corpi separati, opposti, non possono dirci molto di questo soggetto. Certo è necessario dotarsi di abilità e competenze sempre più specifiche e puntuali, scendere in profondità, ma sono proprio queste capacità che portano a vedere i rapporti esistenti fra le varie discipline, a superare dicotomie e separazioni.
A.D’E.: Il “ Boschetto delle farfalle” è giocato sulla compresenza di elementi rigidi in ferro, modulari e bende di stoffa colorate e accartocciate. La geometria si fa luce e colore, diventa imprevedibile e leggera. L’incertezza si coniuga con il calcolo come nelle arcaiche Grandi Corna (in metallo) poggiate su un tappeto di lana grezza. Il materiale anche se sintetico, si fa organico, come nei tendaggi che scendono penzolanti dal soffitto.
Anche il modo di pensare il tempo è cambiato. Già nelle sedimentazioni degli “Orizzonti” hai fatto esperienza di un tempo accumulato: come se nella storia di ciascuno fossero concentrati il tempo della storia e del cosmo cui si aggiunge, oggi, l’esperienza dell’aleatorio.
G.L.: È vero, la vita è fatta anche di imprevisti, e di momenti aleatori. Io, però, rimango dell’idea che l’arte è all’origine “atea”, “amorale”, “extra-sociale”, indenne da contagi culturali.
È l’artista che poi ogni volta la fa accadere, che la trasforma in linguaggio, sapendo che vi è un tempo essenziale alla comunicazione, all’incontro con il mondo. Non si tratta, quindi, almeno per quanto mi riguarda, di un’impresa il cui vantaggio è affidato alla sorte, piuttosto di un lavoro dove è fondamentale agire con consapevolezza.
Quando si afferma che bisogna abbandonarsi ai ritmi propri dell’arte, non significa lasciarsi andare al destino, all’inconoscibile, al caso, ma che bisogna imparare a rispettarne le peculiarità. Ad ogni modo è inevitabile che l’opera, una volta ultimata, segua percorsi e processi di trasformazione che non puoi facilmente controllare. Ma a quel punto non si tratta più della mia opera.
A.D’E.: Se dovessi racchiudere in alcune parole il tuo mondo poetico, sceglierei queste: “leggerezza, incertezza, corporeità, geometria e colore” e tu quali aggiungeresti?
G.L.: Aggiungerei tutti i segni, le forme, i colori e quant’altro ci perdiamo nel fare o nel definire l’arte. Sai quanti passaggi, quante immagini, quante tracce fluttuano, affiorano e poi scompaiono, per effetto d’aggiustamenti e cancellazioni, nella mente di un artista e nel piano dell’opera, prima che arrivi a scegliere quelle da elevare a simbolo espressivo? Un’infinità! A queste vorrei dare dignità, a quelle che, mi piaccia o no, sono costretto a mandare all’oblio, a scartare. E’ anche vero, però, che a volte più aggiungi e meno chiarisci. Così è anche per questo motivo che l’arte è meglio farla, viverla, che raccontarla.
Bari, settembre 2002
Bibl.: A. D’Elia, Memorie del presente – Stralci da un dialogo, intervista pubblicata nel Catalogo Giovanni Leto-Opere 1963 / 2003, ed. Ezio Pagano, Bagheria, 2003
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