Enzo Santese

GIOVANNI LETO / ARCHITETTURE DELL’INVISIBILE

Enzo Santese

 

 

Giovanni Leto inarca il suo concetto di pittura tra due poli che con mobile dialettica danno, di volta in volta, le cariche costruttive dell’opera sottesa da un enigma di fondo: la magia cromatica si inserisce in un contesto pittorico fatto di scarti umorali minimi eppur ricchi di risonanze mitiche. La qualità del lavoro si iscrive tutta nell’area prossima a un’idea di arte totale, impegnata a far vivere sul piano la vibrazione dello spazio, inteso nella duplice valenza fisica e immaginaria. La superficie, distinta in una zona di pura realtà cromatica e in una di spessore materico, fa affiorare attraverso trame varie filamenti di carta intrecciata, quasi archetipi di un mondo fossile, su cui la scrittura d’origine si è frantumata e ha dato l’avvio a una nuova imprevedibile “storia” dell’oggi, impressa sul filo epidermico dei turgori plastici. L’artista ingaggia infatti con la materia (la carta di giornale) un rapporto di manualità spinta a instaurare con lo spazio un gioco, dove l’espressività dell’aggrovigliamento segnino è referente fondamentale per capire l’intima struttura di una pratica che della pittura capta gli spunti più sollecitanti, della scultura coglie l’essenza e stabilisce così una sorta di sincretica contiguità.

Sulle parti scoperte della carta stampata Leto interviene con segni scarni e perentori: i rilievi matrici si complicano in percorsi di scrittura ormai senza contesto, memoria di un segno primigenio e gli elementi primari della serialità di superficie diventano consistenze ipogee esposte alla luce.

Concrezioni raggrumate su strati fossili paiono eludere la plastica struttura geologica per incorporare note semantiche diverse: geometrie frattali sconnesse da alte energie termiche, sovrapposizioni laviche denaturate da uno sviluppo fotografico in negativo.

L’opera evidenzia talora un epicentro che muove onde telluriche, come se le viscere fossero attraversate da una linfa in continua e capillare diffusione ad alimentare terre tumefatte dal tempo e a colmare rientranze prodotte da un lavorio millenario. Il problema dello spazio si colloca tra la pregnanza visiva e l’indicazione mentale con cui l’autore calamita l’enigma del vuoto da una parte e lo rende abitabile dall’altra.

L’effetto straniante, palpabile sulle cadenze strutturali dell’opera, corre sulle velocità di una geometria asservita al dato pittoscultoreo, sul quale si innesta una volontà di scrittura, nel tempo e nello spazio.

Agglomerati di linee testimoniano l’accavallarsi di ere remote agganciate sul piano del presente dalle loro stesse tracce e l’illusione di profondità, proprio in tal modo, diviene mentale e fisica insieme;  i neri e i bianchi che si stagliano “oltre l’orizzonte” portano a una condizione spaziale infinita, quasi a uno stato di stallo, di vuoto asettico; le cordature avviluppate in tormenti circolari e in giustapposizioni parallele o ondulate soggettano poi una forza magmatica e “pietrificano” le sagome tubolari.

Sulla scorta di un immaginario che “sa di terra”, Giovani Leto tesse la grana del mondo invisibile ai più e ne indica una via di disvelamento. Anche se il titolo convoglia talora attenzioni interpretative verso un obiettivo preciso, l’opera resta un campo di virtualità aperto ad altri sensi, a diverse aree di leggibilità. Il problema sintattico della partitura dello spazio e della rappresentazione della luce trova il suo sbocco nella precipua qualità segnica di questa pittura, in cui l’immagine prolifera lungo sequenze che si attestano attorno a un nucleo generante oppure su densità siderali; queste vengono prospettate all’occhio da un fondo nero che permette alla luce di concentrarsi sugli spazi interstiziali, segni di contenimento di altri infiniti segni recuperati dalla casualità della carta da giornale e adibiti a una “rilettura” del tempo.

Bibl.: Enzo Santese, Giovanni Leto / architetture dell’invisibile, in Terzoocchio, n° 54, marzo 1990, Bologna