GIOVANNI LETO / IL TEMPO “CARTIFICATO”
Guglielmo Gigliotti
Deve essere stato un amore viscerale per la pittura ad avere spinto da oltre un decennio Giovanni Leto ad andare al di là di essa. Non ingannino le sue labirintiche spianate cartacee: esse sono delle vere dichiarazioni d’amore nei confronti dell’essenza più intima della pittura, del suo comporsi per masse sul piano, del suo costituirsi sonoro e flagrante dei campi di colore-luce. Un amore cosi forte da non temere il “tradimento” della pratica tradizionale, se esso è condotto al fine arricchire ed allargare le qualità intrinseche e permanenti della realtà, in questo caso pittorica, che s’intende sondare. Ciò che infatti Leto mette in opera nei suoi lavori costruiti per serrate stratificazioni tubolari, involti cartacei, è un traslato oggettivante e metaforico del colore e dei suoi valori espressivi e descrittivi, un traslato motivato unicamente da una ricerca, oltre che di evidenza plastico-volumetrica, di potenziamento dall’interno delle funzioni convenzionalmente e storicamente ascritte al velo cromatico. Di qui il paradosso sensoriale e concettuale di un’arte che va al di là della pittura, pur contenendola, che la trascende integrandola per via endogena, come qualcosa che si trasmuta conservando, anzi, esaltando, la natura originaria. La pittura in Leto prende corpo, ma non perde l’anima. Perché se è vero che l’artista deifica la pittura, al contempo è pure vero che egli pittoricizza la carta. Inconfutabile, infatti, è la poderosa valenza coloristica dei rotoli affastellati, una valenza visiva che si attua per suggestioni mimetiche della stessa pittura. A mera traccia cromatica sono altresì condotti i residui di desemantizzata scrittura tipografica trasudante dai grumi cartacei; come pure d’effetto estesamente coloristico è ancora l’eccitata vibrazione luministica prodotta dalle fitte striature sovrapposte. Non più allusive, ma effettive, sono, invece, in taluni casi, le notazioni cromatiche ottenute con macchie di pigmento ed inserti di strisce di stoffa.
L’evocazione di suggestioni pittoriche – e pittoricistiche – per simulazione plastica, rappresenta il piano operativo di fondo, lo snodo essenziale e primario dell’arte letiana, ma non basta a spiegarne da sola il fascino intrigante. Leto non ha solo reinventato un materiale, la carta, e una tecnica, il collage, egli ha pure coniato un idioma che rende il suo discorso inconfondibile nel panorama della ricerca artistica italiana.
Vocabolo principale di questo idioma è proprio quel cordone cilindrico di carta ravvolta e pressata che tanto godimento mateorologico scatena in chi l’ha lavorato come in chi guarda, e che viene a depositarsi lista su lista in crescita ascensionale dal lato inferiore del quadro con cadenze ritmiche, regolari e dal forte, per quanto dissimulato, senso costruttivo. Che la composizione assurga, per successione di orizzontali, a muraglia compatta, lasciando liberi il solo segmento superiore del piano, che essa si movimenti al suo interno per fluttuazioni e gorghi serpentiniformi dei cordoni, o che vada a colmare asfitticamente per intero il campo, determinando a sua volta un nuovo campo franto in mille rivoli di carta, a farla da padrone è sempre e solo l’elemento lineare delle conglomerazioni cartacee, il loro filiforme generarsi l’un dalle altre a tracciare percorsi e a intessere trame. E la linea – lo sapeva bene Klee – è racconto, perlustrazione, sogno. In Leto, la linea si stratifica, diviene immagine del corso temporale, parafrasi della sedimentazione mnemonica, d’un divenire che è tutto interiore e che il filamento di carta porta alla luce della coscienza visiva e della percezione tattile. Carta dunque, che, così manipolata, si fa spazio, tempo, vissuto. Carta che narra per arabeschi, veri e propri cartogrammi li si potrebbe definire, di ere remote e del presente più vicino, del noto e del dimenticato, che addiviene a medium assoluto che tutto contiene e tutto descrive, perché è in sé, fenomenologicamente, già figura, immagine, allusione.
Lo scarto fantastico, proprio in ogni invenzione poetica, porta così a scorgere nelle opere di Leto, quando desolate vedute paesistiche, quando masse acquatiche in turbinoso “leonardesco” sommovimento ondoso, quando ancora spaccati di sprofondi geologici graduati per sezione, oquant’altro la fantasia possa o voglia semanticamente ascrivere, a un materiale, quello cartaceo, che svela, trattato da Leto, le sue misteriose connaturazioni fossili, terracee, liquide e finanche gassose.
Come si vede, nell’arte di Giovanni Leto, la fisicità cruda e corposa non esclude, anzi convoglia, risonanze astratte e immaginose, l’oggettività sollecità l’allusività, il fenomenizzarsi al presente congloba la distanza mitica, l’appresso bidimensionale nasconde scansioni in profondità illusionistiche, il pathos si veste di progettualità. In altre parole, gli opposti, s’integrano, si permutano, denunciando tutta la loro relatività e adombrando un nuovo e in gran parte inesplorato ordine ontologico delle cose. Pure un materiale povero come la carta da giornale o da rotocalco, dopo l’uso altrimenti destinato al macero e alla distruzione, si scopre, “salvata” e trattata da Leto secondo criteri poetici che rimandano a Burri e al suo modo di lavorare la tela di sacco o plastica, sostanza preziosa, veicolo altamente espressivo, strumento, come precedentemente detto, di un racconto sterminato. Semplici e scolorite pagine a stampa, statutariamente appartenenti alla sfera del quotidiano, del transeunte, del contingente, quello per altro ipertrofico, e comunque spesso faceto, dell’odierno sistema informativo, investite dall’afflato demiurgico e poeticodell’artista siciliano, disgelano il segreto della loro natura nobile, il loro carico di messaggi non scritti, ma proprio per questo leggibili ad occhi chiusi, quelli di Leto quando avvista nel foglio i futuri trasognamenti materici. La carta, così, sorta dalla lavorazione di sostanze vegetali che la terra aveva alimentato, torna alla terra, diviene humus essa stessa, quello fertile e succoso di umori ipogeici delle rappresentazioni letiane, e per questo ancora più vero, perché affidato all’indeperibilitàdell’immaginazione artistica. E’ questo che fa pensare alle configurazioni di Leto come ad illustrazioni di un’archeologia dell’oggi, dove scovare – e forse anche amare – i detriti e le macerie che la macchina poderosa della “modernità” tecnologica e consumistica lascia dietro di se al suo passaggio rapido e distratto.
L’arte diviene luogo della riemersione del rimosso, della messa in discussione della filosofia produttivistica che bada al risultato tangibile e “utile” e l’operazione di recupero, che è operazione di per sé estetica, si carica di valenze etiche che debordano dal manufatto artistico per descrivere una presa d’atto di carattere esistenziale e sociale. Una presa d’atto tuttavia mai sbandierata e mai assunta in chiave programmatica, che in tal senso avrebbe soppresso ogni sincero slancio creativo, ma implicita a un modo di accostarsi alle cose e di guardare al mondo, e presente solo in quanto lasciata decantare nell’approfondimento di un peculiare percorso espressivo. E’ presa di coscienza intesa come dichiarazione di appartenenza a un preciso ordine di valori e sensibilità, ma rimane pur sempre quinta, sfondo di un operare che trova il suo epicentro altrove. Quell’altrove governato dal piacere tattile – dalla connotazione ludico/ erotica – della manipolazione, della manualità intesa come estrema propaggine fisico-sensoriale della corporeità. “A me interessa il rapporto carnale con la materia” spiga Leto parlando dei suoi lavori, facendoci intendere come ogni sua opera sia il risultato di una sfida-identificazione tra due carnalità, quella dell’artista e quella della polpa cartacea, che in tale veste assurge a “carne” del mondo, concrezione sublimata d’ogni possibile matericità ed elevata a simbolo oggettivato di una sempre riproducentesi, per quanto personale, cosmogonia.
Bibl.: Guglielmo Gigliotti (a cura di), Giovanni Leto / Il Tempo “Cartificato”, ed. Atelier Arti Visive, Carrara, 1996
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