GIOVANNI LETO / LE TERRE DI NESSUNO
Marcello Venturoli
Nella Expo Arte di Bari di quest’anno mi sono imbattuto in diversi giovani artisti di talento che ho festeggiato sui miei fogli, con la gioia di constatare che si può essere validi, maturati dopo le ultime avanguardie e non essere necessariamente “trans”. E ciò voglio dire non per contrapporre questi talenti “sciolti” a quelli dei gruppi sedimentati e portati, ma per dire che il mondo dell’arte (giovane) è fatto di personaggi diversissimi, che han preso rincorse culturali più o meno lunghe, che operano da questa o quella istanza, e tale condizione, del resto, vale un po’ per tutti. E’ la volta di Giovanni Leto, da Monreale, presentato a Bari da un intraprendente gallerista, Ezio Pagano di Bagheria e che io apprezzai immediatamente. A prima impressione i “paesaggi” di Leto sembravano un miscuglio fra gusto informale, pop (nella misura dell’utilizzazione dell’”oggetto trovato” come relitto del consumo) e “arte povera” (perché le sue tessiture o pressature di cartocci, cordoni, di carte da giornali specchiavano una certa emergenza): una cultura vitale, non di accatto, la cui follia ha un metodo; più l’”oggetto trovato” del padre ideale di Rauschenberg, Alberto Burri, che il gusto palesemente anticonsumistico nell’utilizzazione del manifesto, collage o décollage, di Rotella. Un “oggetto trovato” degli scarichi, macerie della civiltà, che prendono una forma indistinta, sembrano ritornare quasi alla preistoria, assumere la faccia delle terre di nessuno, della assenza dell’uomo stampata negli orizzonti con tante schegge di sua passata e consumata presenza. La caratteristica di Giovanni Leto è quella dunque di una non corta partenza, anche se motivata dalle istanze cresciute dopo l’Informale; i quadrati dei suoi “dipinti” possono essere considerati crisalidi di quadri ad olio, se non fossero composti di materia solida e rilevata per successivi strati solitamente in crescita dal basso all’alto, per spezzoni orizzontali.
Pare che l’artista palermitano proceda nell’operazione pop-povera per accumulo cartaceo in una crescita che si interrompe a tre quarti, talvolta alla metà, del quadrato e perciò il quadro ad olio o, se si preferisce, il quadro eseguito con mezzi tradizionali, viene spiazzato dal metodo: la materia figurante che sostituisce il colore di tubetto, essendo “relitto”, si comporta, benché allineata e rapportata nelle cromie con gran gusto, come “oggetto trovato”, cosa ripescata e presentata in container; e infatti le cornici dei quadri di Leto (talvolta fortemente colorate, altra inesistenti per il semplice listellino bianco) fanno da ornamento delimitante e da recipiente, dove gli strati di cartapesta si fermano all’improvviso per lasciare ora lo spazio del quadro completamente vuoto, – l’aria o il muro stanno dall’altra parte -, ora nero lacca, neutro, ora bianco, colori mentali, privi di qualunque “atmosfera”.
In questo modo Giovanni Leto accentua l’emergenza della visione, anche se non ci vuole dare mai (se non per associazioni) la “pittura” come veduta. Potrei dire che Leto goda di una inattaccabilità figurativa perché il suo discorso è tutto dentro la materia, che può ipotizzare una pianura fortemente ingombrata da ex cose, il relitto che si fa strato, onda, si presenta via via dinnanzi al contemplante come in una difesa, compatta di trincee.
La diversità del “paesaggio” è data quindi non dalle intenzioni, ma da una sorta di spontaneo accadimento, questo caleidoscopio di rotoli compressi diventa in re ipsa racconto, basta per esempio che i rotoli accumulati non crescano oltre la metà del quadrato, perché da pianura accidentata l’artista passi a dirci di colli carsici (“Orizzonte grigio N. 2, 1985, questa e tutte le altre opere sono state eseguite nel medesimo anno) di muri di casematte (“Orizzonte 1”), di magma lavico bloccato per sempre nel suo fluire (“Orizzonte nero”, “Orizzonte trasparente”).
Ho accennato a Burri a proposito del pacchetto culturale di Leto. Più in particolare mi riferisco ai “sacchi” e alle plastiche del grande informale; e non soltanto alla sua “utilizzazione” dell’oggetto trovato o consumato, nel caso specifico, l’estrema conseguenza di un logoramento a seguito di evento bellico, ma dell’“ordine” con cui Burri tende quelle sue piaghe delle cose (e Leto è un grande ordinatore di rinfuse, un felice architetto di discariche); e delle intense, direi quasi improvvise, cromie, che accende fra le terre ferite e i bianchi vetrioleggiati, insorgenze di sangue; da ricordare per gli echi evidenti in Leto, il famoso “Carnevale” burriano.
Un fatto è certo: laddove l’artista palermitano porta cromie squillanti, l’immagine nella sua globalità accentua il dramma; per cui in un suo lavoro intitolato semplicemente “Orizzonte”, la più bassa delle “colline” per accumulo di cartapesta, è difficile non immaginare il sangue, la malattia, la morte in quelle ritmate cromie; o nel già citato “orizzonte grigio”, un senso di campo di battaglia dopo la sconfitta, in quel tirarsi orizzontale della materia che splende di accostamenti timbrici di colore, cosi vibranti che sembran provenire più da pietre dure che da carte compresse. E che dire del patetico arlecchinesco ferito grave con bende nell’opera dal titolo “Orizzonti ad angolo sovrapposti”? (si tratta praticamente di uno dei quattro dipinti connessi, di cui appresso parlerò). L’artista non compie mai la sua operazione di raccolta inventario senza destinarla ad immagine.
La sua materia è si, astratta, ma non irriconoscibile: la spia che si tratti di giornali o comunque di una carta stampata, manifesti, locandine, periodici di ogni specie, si manifesta nel rapporto fra rilievi e superfici tipografiche, per cui talvolta l’operazione di Leto si avvicina alquanto a quella del collage-decollage di Rotella (“Orizzonti ad angolo sovrapposti”; quello, per intenderci, dove i caratteri a stampa trapelano, cartoccio per cartoccio). Le due opere più distanti l’una dall’altra e insieme fisionomiche di una dialettica formale precisa e non confondibile in questa fase fortunata della pittura di Leto sono “Orizzonte 5 e il già citato “Orizzonti ad angolo sovrapposti” in quattro elementi o lati inseriti a formare una specie di contenitore dai grandi supporti di legno nero. Il primo dei due lavori (“Orizzonte N. 5”) si presenta come il più “descrittivo” dei paesaggi costruiti con macerie e non a caso l’orizzonte è quasi del tutto coperto, le cartapeste sovrapposte arrivano quasi in cima, la prospettiva è insieme lontananze e a chiusura di sipario; anche il modo della tessitura o compressione di strati è più morbido, uniformante, ne esce una sorta di tessuto cromatico materico informale; eppure le liste o schegge cartacee vibrano sotto quella cenere rosata e grigia, fanno un mare immobile, orfano dell’uomo. Prevale nel quadro un forte senso “pittorico”.
Nell’altro lavoro, invece, è sovrana l’operazione accumulo, quasi che l’artista avesse provveduto a collocare in una specie di armadio senza sportelli file di panni, li avesse stipati fila per fila, dando – almeno questa è l’impressione che si riceve sulle prime – un che di provvisorio, di occasionale alla immagine scaturita dalla stessa sua operazione: l’idea di una emergenza e addirittura di una destinazione dell’immagine, alternativa, a seconda di come recita la materia accumulata nei riquadri e di come i riquadri si compongono fra di loro, ora colmi, ora a metà, coi “cieli” così non dipinti come se dietro l’accumulo delle carte stipate ci fosse il vuoto.
Come si vede l’oscillazione fra visione pittorica e materia dolente e stratificata, tra gusto post informale e post pop pokerista è tanto evidente quanto vitale. Situazione poetica e culturale assai positiva, e non soltanto perché si manifesta nel profondo Sud.
Bibl.: Marcello Venturoli (a cura di),Giovanni Leto / Le terre di nessuno, ed. Associazione Culturale Hobelix, Messina, 1985
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