UNA SOLITUDINE ESSENZIALE
Piero Montana
“E adesso dove? Quando? Chi?”
Con queste iniziali domande dell’Innominabile di Beckett cominciamo a dire delle opere di Giovanni Leto e di quella devastante, sconfinata solitudine, che d’impatto da esse traspare.
In questa solitudine essenziale pare, infatti, che tutto sia sparito, lasciando ammonticchiati dietro di sé solo i resti, le scorie, cumuli di detriti.
Là dunque, in queste estreme regioni degli sconfinamenti, della desolazione, dell’altrove, della follia o se si vuole della notte, in cui il tutto sparito appare (regioni in cui la notte è l’apparizione del tutto sparito), sono prossimi, si avvicinano il silenzio, l’assenza.
Forse il potere di un’opera non è quello che ci permette di uscire da uno spazio ristretto, angusto, per ritrovarci in una dimensione illusoria in cui il tutto o la totalità dell’Essere si dà nel suo orizzonte, al contrario è possibile che un tale potere si fonda, si affermi nell’oblio, in quell’approssimarsi della notte, in cui il tutto sparito appare nell’epifania dell’Altro.
E’ la luce della desolazione, delle rovine, quest’illuminazione notturna sull’orizzonte dell’Essere, che scorgiamo in tutta la sua chiarezza nei quadri (?), nelle sculture ed installazioni di Leto.
Cosicché nella luce di questa verità dell’Essere che si oblia, che scompare, in questa piega del nascondimento dell’Essere, che dietro di sé, sotto forma di cumuli di detriti, lascia le impronte, le tracce mortali della sua dipartita, attraverso questi “quadri” certamente penetriamo con angoscia, senza però potervi trovare rifugio, riparo.
La luce dell’Altro, una sorta di luce nera, abbagliante – il cuore della luce è nero, sostiene Derida – non rischiara la notte, la cancellazione del tutto, ma se così possiamo dire si proietta di riflesso sull’estensione immaginaria della catastrofe, che si delinea netta sulla linea dell’orizzonte della Totalità.
E’ alla sola estensione visibile del disastro, che nelle opere di Leto l’invisibile (l’apparire del tutto scomparso), fin dentro le pieghe del nascondimento, della dipartita dell’Essere, è intimamente legato. Ma forse l’Essere qui non si è soltanto obliato, non è semplicemente scomparso, lasciando dietro di sé in un “quadro” le tracce visibili di un mondo deserto, spettralmente abitato da cumuli, cataste ammonticchiate di carta, di fogli di giornali arrotolati come a formare una sedimentazione di una scrittura al macero e di quegli scarti delle parole quotidianamente scritte e destinate come rifiuti ad essere abbandonati in quella pattumiera del mondo, che è costituita oggi dalla discarica giornaliera dell’eccedenza del pensiero nella sua sovrapproduzione di significati, di senso.
L’Essere non è qui semplicemente imploso in una sorta di luce o buco nero. L’estensione della catastrofe, messa a fuoco in queste opere, ci spinge a temere il peggio: la rottura, l’esplosione paurosa della Totalità.
In un senso non banale, che si presta invece ad una lettura in profondità, possiamo dire che la notte, la solitudine visibile, o da noi appena intravista negli orizzonti delle opere di Leto, è una tremenda ferita a livello del mondo.
L’apparire del tutto scomparso, la luce nera, l’epifania dell’Altro hanno, infatti “origine” da queste ferite doloranti, che hanno scosso, travolto l’Essere, che a causa di questi colpi mortali hanno finito per abbandonare il suo cadavere, le sue spoglie in un deserto colmo di desolazione. Il pensiero come espressione, evento immane del disastro, della morte di ogni identità o soggettività, della morte di Dio e dell’io, è dunque il riferimento costante, l’attenzione, la preoccupazione di un artista che con le sue opere vuole parlarci della desertificazione della Scrittura, che nella sua produzione incessante, rompendo ogni freno, ogni argine finisce per seppellire le sue verità sotto cumuli di detriti costituiti dal linguaggio stampato quotidianamente sulla carta dei giornali perennemente destinati non alla custodia, alla salvaguardia dell’eternità delle idee, bensì alla distruzione sistematica di esse.
Nelle opere di Leto dunque, nonostante un’inquietudine persistente, un’angoscia diffusa che da esse traspare, la devastazione, questo spazio deserto della morte, questo cimitero dell’anima e dell’Essere, in cui i detriti della parola si accumulano, si stratificano in orizzonti sempre più alti, tutto questo spazio immane della catastrofe, legato ad un evento senza registro, senza memoria, ci appare allora “fondamentalmente vuoto”, privo persino dei poteri dell’orrore.
Nel vuoto di una solitudine essenziale, nel vuoto della notte, della separazione, della luce e della compagnia dell’Altro, pur tuttavia sempre assente ed inafferrabile, queste opere di Giovanni Leto, in cui cartocci di fogli di giornali, arrotolati come e con degli stracci, riempiono come fosse spazzatura l’interno materico dello spazio di un quadro, al di là di ogni metafora, di ogni rapporto significante con quell’altro luogo disabitato”, che oggi è il mondo, spazio ateologico della morte e dell’assenza di Dio, queste opere, dicevo, rimangono una testimonianza unica ed irripetibile nella sua originalità di quel processo insieme di produzione e distruzione di senso, di quel processo di decostruzione della scrittura, nei cui scarti, segni al macero ormai il logos occidentale, il pensiero dell’Essere e della Totalità è metafisicamente travolto contemporaneamente alla messa in scena della tragedia della cronaca quotidiana, rappresentata dal linguaggio stampato ed impaginato dei media.
Bibl.: Piero Montana, Una solitudine essenziale, in Il Settimanale di Bagheria, n. 83, anno, 2004
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