GIOVANNI LETO / VULCANICA
Vittoria Coen
Gusto fisico del materiale, metodo e arbitrio nello stesso tempo, costruzione sistematica condotta con pazienza certosina, con accanimento, fanno degli immaginari luoghi di Leto un mondo morfologicamente tutto particolare. Quello che più colpisce nei suoi lavori, quest’amore per ciò che appare voluminoso eppure appiattito, dominato appunto da una vincente fisicità, si compie in un calibratissimo uso dei materiali, in una disposizione, in un equilibrio delle parti che non trascura mai l’effetto compositivo complessivo. Tra artigianato e arte di recupero, si potrebbe si potrebbe credere che in Leto continui una certe tradizione che va passando attraverso esperienze di assemblaggi, collages, con inserimento di materiali di recupero, di ready made ben noto da tempo alla critica.
Se però nei casi storici l’intento estetico non era protagonista ma, al contrario, l’idea portante escludeva, almeno preliminarmente, che nel risultato apparissero tentazioni di godimento, il lavoro di Leto non vuole sottrarsi al raggiungimento del risultato estetico, anzi lo cerca con cura, attraverso accostamenti sapienti che impattano fra loro le parti di un tutto per il quale sembrano nate.
La battagli che Leto conduce per occupare lo spazio concedendosi solo il respiro di un confronto fra pieno e vuoto, fra terra e cielo, fra sostanza “bassa” e sostanza aerea, una battaglia che ufficialmente si svolge fra gli elementi fondamentali del cosmo fisico, sembra risolversi, molto umanamente, in un prepotere del senso.
I suoi cosiddetti paesaggi non sono tuttavia vedute paesaggistiche, descrizioni, topologie: ciò che egli propone e ha l’aria di vedere non è in nessun luogo apparente; può, tutt’al più, considerarsi uno degli aspetti individuabili della struttura delle cose, quello a cui l’artista concede la parola, per questa volta.
E, per questa volta, nello spazio gremito e inquieto, in piani quasi simmetrici e ordinati, o in volute, anse, labirinti il cui unico traguardo è quello della reciproca rassicurazione del tenersi stretti.
Certo, le corde di Leto non si dipanano “en pleinair” come quelle di un Mattiacci (“Tubo” del ?67) che gioca sulla spazialità la sua carta migliore. Qui la costruzione del groviglio lascia filtrare solo qualche volta un particolare, come in “Orizzonte trasparente” dell’85, frammenti di parole, un “guttadauro” non si sa se casuale o allusivo di un’inclinazione estetizzante che non si direbbe affatto sollecitata dal rigore della stratificazione quasi a foglio di papiro o di pergamena, ben diversa dalla più consueta, se pur contenuta, di altri lavori.
In alcuni casi, poi, un’elegante nota cromatica interrompe la superficie per introdurre il protagonismo di un referente a cui il titolo stesso conduce, un’infiltrazione, una falda, un elemento neoplastico, o una pioggia di colore in versione sperimentale come nella bottega di un tintore da Mille e una notte, di “Orizzonte bianco”, sempre dell’85.
Anno cruciale, questo 1985, a quanto pare, seguito poi da tentativi di uscire da una certa forma artistica e da una decisa drammatizzazione dei temi, e poi ancora da una ripresa di quelle linee morbide e insinuanti a cui l’artista ci ha abituato. Stoffa, carta, in qualche caso plexiglas, si alleano a lanciare un ponte fra ipotesi di realtà e trasfigurazioni dell’immaginario di cui non si delineano confini.
Tra i confini aggrovigliati tracciati da Leto emergono alcune note di colore. Qualche rosa, giallo, blu, nascono e spuntano dalle sedimentazioni e sviluppano un certo contrasto, come se la terra avesse inghiottito forme a lei estranee, e improvvisamente le facesse riemergere.
Il senso allora di una natura, di un insieme di elementi dai colori compatti che fanno da fondo naturale, viene a caricarsi di cromatismi violenti: nascono “Catastrofe” e “Glaciazione 2”, polimorfismi che sembrano scaturire nel momento stesso in cui li vediamo e che sono invece frutto di una progettualità precisa, in cui la materia viene volutamente alterata.
C’è un contatto anche violento, in ogni caso caldo, con la terra d’origine che Leto sembra particolarmente sentire e che rivive intensamente nel suo lavoro: vulcano, lava, movimenti tellurici, in alcuni casi l’idea di una colata e a volte invece una sottile traccia fossile lasciata nei millenni, impronte di vita passata e movimenti di vita presente.
Questa terra complessa e sobriamente raccolta in sé stessa osa qualche volta la “Vertigine” di una costruzione svolta in altezza, un po’ monolito un po’ manifesto sul consueto sfondo discreto, ma di solito occupa buona parte dello spazio quando non lo occupa addirittura del tutto, come se il prolungamento della superficie si stendesse fino a spostare in lontananza l’orizzonte sopra terra, ad accrescere il senso e la presenza del pieno.
Questa tensione orizzontale può modificarsi in ondulazioni agitate: non più rettilinei ma movimenti rotatori che fanno pensare ad un’inquietudine non placata dalle pur significative infiltrazioni di certi lavori.
Congelare, fissare, stabilizzare una materia in movimento è la quadratura del cerchio a cui Leto sembra tendere: potrebbe essere questa una lettura suggestiva della sua ricerca.
Bibl.: Vittoria Coen, Giovanni Leto – Vulcanica, ed. Ezio Pagano – Collana I Quaderni dell’Arte n° 4, Bagheria, 1990
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